Papa Francesco uno di noi

papa-francescoPapa Francesco sta cercando di riportare la Chiesa all’ascolto e alla comprensione del Vangelo eliminando tutte quelle sovrastrutture, quei meccanismi più o meno articolati e complessi, che si sono andati formando nel corso dei secoli e che non avendo nulla di evangelico inevitabilmente la appesantiscono e schiacciano sotto il suo stesso peso.

Ha un occhio puntato sulla ferita che sanguina e le sue parole come il bisturi di un abile chirurgo penetrano a fondo individuando la radice del male (in questo non fa altro che proseguire l’opera intrapresa dal suo predecessore Benedetto XVI, ma con maggiore concretezza e più slancio non fosse altro che per la diversa età biologica). L’altro occhio invece mira ad attualizzare i frutti della Misericordia Divina, nel renderli alla portata di tutti (era stato Giovanni Paolo II ad istituire la festa della Divina Misericordia, la prima domenica dopo Pasqua, quindi anche in questo papa Francesco si dimostra perfettamente in linea con chi l’aveva preceduto).

Ma tornando al Vangelo, riscoprirlo significa mettere al centro della propria esistenza Gesù, il viaggiare con lui a fianco, cercare di conoscerlo, di istituire con lui una relazione, un rapporto. Come ho già detto altrove, non è impresa semplice questa. Dove abita Gesù? Dove si trova? La risposta che ci offre Papa Francesco, è mio avviso questa: Gesù lo trovi nel Vangelo, ancor prima che nella Chiesa. E’ un invito non ad abbandonare e ad uscire dalla Chiesa, ma ad entravi ancor di più , ad esserne protagonisti istituendo un rapporto diretto e intimo con colui che ne è il fondatore. E’ una verità semplice e scomoda al tempo stesso. Perché a volte è più facile nascondersi, nei vari movimenti, ordini e gruppi parrocchiali, vivere una fede parassitaria, protetti dall’organismo del quale si fa parte e tralasciare di avere un rapporto diretto con Gesù. La mediazione degli altri è necessaria perché nessuno si salva da solo, ma la mediazione a volte passa anche attraverso la voce e l’esperienza di chi non crede e soprattutto il mediatore per eccellenza colui che ha gettato un ponte tra cielo e terra è Cristo, non altri. A volte dimentichiamo di essere gregge con un unico pastore e preferiamo essere gruppi con a capo leader carismatici. Tornare a Gesù mediante il vangelo, significa scoprire la propria vocazione, dare un senso alla propria esperienza, essere profeti sempre e comunque.

Papa Francesco è concreto, un uomo del popolo vero e autentico, è Papa ma anche Parroco, uno come noi, capace di parole alte e al tempo stesso basse, di mostrarci come la verità di Dio sia presente in tutti i momenti della nostra giornata, da quelli apparentemente più sacri a quelli profani. Quando al termine di ogni Angelus ci augura buon pranzo, la mente inevitabilmente corre al piatto che ci aspetta sulla tavola, alla convivialità di quel momento, ma a ben guardare il “pane quotidiano” quello vero, è racchiuso in un libro, nelle sue parole è c’è da augurarsi che non manchi mai dalle nostre mense. E questo il Papa lo sa. Mangiatene a volontà di quella Parola! A messa, nell’Eucarestia e non solo.

Per Amore del suo nome

nomeMi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome (Salmo 23)

Non perché mi ama, ma perché ama se stesso? Anzi ama il suo nome…ma che roba è questa? Una sorta di brand reputation ante litteram, in cui il brand è rappresentato da un nome impronunciabile, indicibile. Una brand reputation che giova alla salvezza degli uomini. Qui ci avventuriamo in territorio nuovo e inesplorato, ai confini dell’autostima e del narcisismo.

Proviamo a domandarci: cosa facciamo noi per amore del nostro nome? E cosa significa amare il proprio nome? Partiamo da questa seconda domanda, per poi risalire lentamente sulla cima della seconda. Amare il proprio nome significa amare ciò che sono e ciò che sono diventato? Direttor. Dott. Ing. gran. ladr. di gran croc. pezz. di merd direbbe Fantozzi. Cioè amare titoli e distintivi? Ma titoli e distintivi a ben guardare stanno prima e dopo il nome o comunque assieme al nome, lo accompagnano ma non sono il nome. Spesso noi ci identifichiamo con loro, ma così facendo ignoriamo il nostro nome, la nostra vera essenza. Quindi nessun prefisso e suffisso è il nome. Come neppure, grammaticalmente, nessun aggettivo che può dargli più o meno lustro, maggiore o minore visibilità o valore. Quindi siamo lontani da una idea di mercato e l’idea iniziale di una brand reputation fondata sul nome viene meno.

Davide il salmista allora a cosa allude quando dice “per amore del suo nome”? Torniamo indietro, anche se abbiamo formulato già una terza domanda resta da rispondere ancora alla seconda. Cosa facciamo noi per amore del nostro nome, della nostra reputazione? Solitamente i grandi e gli spacconi, raramente i misericordiosi. Per amore di un nome che come abbiamo visto non è un vero nome ma tutto un contorno grammaticale di prefissi suffissi, aggettivi, avverbi, articoli, preposizioni, noi non essendo radicati nella nostra essenza, ma in una reputazione transitoria e passeggera che muta in continuazione, siamo come bandiere al vento sbalzati dalla dea fortuna, oscillanti tra autostima e narcisismo, tra depressione e disperazione.

Il nome di Dio è l’esistere, l’esistenza stessa, senza fronzoli e ulteriori aggiunte. E’ un nome che in realtà allude ad un verbo, che è una condizione originaria, presente e futura. Attraversare l’esistenza da cima a fondo, dall’inizio alla fine. Pieta e misericordia, salvezza per gli uomini. Questo è ancor più il nome di Dio. Un nome che non si svuota, che non perde il senso con il passare del tempo, qualcosa di diverso da ciò a cui alludeva san Bernardo parlando di Roma antica: stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. Un nome Vivente!

Il Cloud di Dio

cloudIl Cloud di Dio è diverso, è particolare. Serve tutti indistintamente ed è strutturato per la condivisione. Ciascuno vi attinge la propria identità, la propria esistenza e si salva solamente ciò che risulta idoneo al regno dei cieli. E’ una nuvola che un giorno ci inghiottirà e saremo completamente liquidi e digitali e sperimenteremo il silenzio che è assenza di linguaggio, di parole. Quanto ad ora, ci sforziamo di decifrarla, con un alto tasso di fraintendimento che a volte si trasforma in intuizione e genialità.

Ma a ben vedere la nuvola non è così lontana ha compiuto il processo inverso, si è incarnata. E’ diventata corpo e sangue, ha trasformato il mondo, lo ha redento. E noi vediamo scorrere i numeri dell’incarnazione, l’algoritmo dell’Amore sull’epidermide del nostro Salvatore. Il vento dello Spirito ce lo riporta, ce lo conduce, ce lo svela. Soffia sul nostro viso, rinnovando la storia, la linea del tempo.

E tutto diventa familiare, alla portata, per sancire un nuovo inizio, una nuova avventura. L’inconoscibile, è alla portata dell’uomo che si mette in cerca e all’ascolto. Oggi correggendo alcuni compiti dei ragazzi ho trovato scritto che la musica “li ha salvati”. Allora ho pensato: se siamo capaci di salvarci gli uni gli altri con le nostre canzoni, con le nostre parole, tanto più sarà capace di salvarci Colui che è l’ispiratore di tutto ciò. Dobbiamo aiutare i giovani a guardare dietro ogni parola, dietro ogni emozione, non in maniera narcisistica, non per specchiarcisi dentro ed ingigantire il proprio Io. Ma per insegnare loro a rendere a grazie non solo alla creatura, ma anche al creatore. Affinché la loro felicità, transitoria e fugace si trasformi in gioia piena e durevole.

Rendimento di grazie e Lode a te Signore!

I giovani e la musica

Auguriamoci che l’opera intrapresa da papa Francesco continui, senza interruzione: rinnovamento e pulizia all’interno della chiesa. Opera che prosegue per altro il lavoro cominciato dal suo predecessore. Un punto sul quale sin qui si è riflettuto poco, è la continuità esistente tra i due pontificati su questo aspetto. Ma questa è soltanto una considerazione a latere.

In questi giorni di deserto spirituale si sente tutto il peso di certe scelte e certe decisioni. Conforta l’incontro con Gesù, diretto esplicito, coinvolgente. Caro Gesù, amico fidato, amore. Solitamente mi piace iniziare così il colloquio con lui, e poi lasciare che la polvere del silenzio mi avvolga. Oggi riflettevo su una cosa. Che grande responsabilità che ha la musica e più precisamente i cantanti sulle nuove generazioni. I suoni e le parole possono avere la possibilità di scardinare edifici logori di parole e tempo, vite spezzate, consumate dalle dipendenze. Questo spesso è il vissuto dei giovani e solo la musica per alcuni può essere capace di riattivare risonanze profonde e spingerli alla ricerca di una strada, di un cammino che non c’è e che solo loro possono percorrere: ognuno il suo.

Qui il vento soffia forte e sembra non cessare mai. I suoni profondi dell’anima, parole e musica strumento di dialogo e comunione con noi stessi, con quella parte di noi che ancora non conosciamo, che scopriamo poco a poco. Se solo sapessero i ragazzi che dietro ogni nota, dietro ogni parola che li scuote, li innalza, c’è nascosto Dio. Che quell’estasi, quel godimento, quel pianto, quel riso, quella nostalgia che dura il tempo di un mp3 è solo l’inizio dell’avventura che esso è espressione di qualcosa d’altro, di qualcosa di più nascosto. Ecco allora che quando i ragazzi mi chiedono “ma come faccio a scrivere” gli rispondo, scavate dentro di voi e troverete grandi ricchezze.

Maestro Buono

crocifissoMentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? ”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Marco 10, 17-18

Perché Gesù si dispiace di essere definito buono? Un semplice aggettivo lo infastidisce, gli fa perdere di vista per un attimo la risposta dovuta al giovane ricco. Si blocca, si ferma, sembra non procedere oltre. E’ un sofisma o qualcosa di più, questo suo indugiare sull’aggettivo buono, questo rimarcare la sua inadeguatezza?

Gesù, in coerenza con quanto aveva affermato anche altrove, capisce che nella domanda c’è qualcosa di più, qualcosa che non appartiene a Dio bensì al suo antagonista. Ricordate cosa aveva detto in Matteo 5,37  “Il vostro parlare sia – sì, sì; no, no – il resto viene dal maligno” Ebbene nell’episodio che stiamo esaminando la domanda è “che cosa devo fare per avere la vita eterna?”, è una domanda precisa, scottante alla quale darà una risposta altrettanto definitiva e perentoria. Questa è comunicazione! A domanda, risposta, così ci si intende, così ci si capisce, c’è direzionalità nel linguaggio, ci sono tante frecce che ci indicano in quale direzione andare. Non abbiamo alibi, non ci sono giustificazioni che tengano. O diciamo si, oppure diciamo no, con assunzione piena di responsabilità. Intendiamoci, per il giovane ricco ci saranno altri bivi, altri crocevia e potrà scegliere ancora e riscattarsi, insomma non finisce tutto qui. La storia della salvezza di ciascuno di noi non si conclude neppure con la morte. Anche se per la parte maggiore sarà, sicuramente già compiuta in quel momento. Ma adesso, ora, il giovane ricco è chiamato a fare una scelta, a dire si oppure di no, con le conseguenze che ne derivano. Mi piace ricordare a tal proposito alcuni versi di Costantino Kavafis su Celestino V, riprendendo Dante “Che fece…il gran rifiuto”

Per certi uomini arriva un giorno
in cui il grande Sì o il grande No
devono dire. Subito appare chi
ha pronto il Sì, e dicendolo ancora

cresce nella stima e nella propria convinzione.
Chi ha rifiutato non si pente. Se gli chiedessero di nuovo,
direbbe ancora di No. Eppure
quel No – così giusto – l’angustia per la vita.

Torniamo invece alla parte del maligno. A quel “Maestro buono” che tanto dispiace a Gesù, perché lontano dal suo modo di comunicare, dal suo modo di indicare la strada, il cammino a ciascuno di no. Quelle parole, sono un blandire, un gettare le mani avanti per non rompersi l’osso del collo, una captatio benevolentiae del tutto fuori luogo. Adesso devo “bastonarti” e tu mi chiami buono così speri che addolcisca la pillola? Devo dirti che devi lasciare tutto e seguirmi, ma tu non vuoi che te lo dica. Vuoi fare salotto, parlare del più e del meno, mitigare una domanda tanto diretta e scottante, perché tutto alla fine resti come prima e tu possa sentirti sicuro e protetto nel mondo in cui vivi, nel rispetto della legge.

Gesù è buono, infinitamente buono e misericordioso ma non lo è secondo i criteri del mondo, la sua bontà non gli impedisce di comunicare la sua verità e giustizia, quella di Dio. Ecco uno dei tratti distintivi della vita di Gesù è proprio questo, la sua capacità di comunicare, di non rinunciare mai alla comunicazione, pur nelle difficoltà, anche nei momenti di dolore e massima sofferenza. Qui c’è una grande sofferenza da parte di Gesù, l’incomprensione umana. Gli uomini non capiscono, non intendono, non vanno oltre le loro categorie mentali, vedono tutto bianco o nero, devono vederla così per sentirsi rassicurati, per non sentir vacillare l’orticello che ha fatica si sono tirati su. Un buono che parla chiaro non è poi così buono, anche se non è cattivo; ma allora cos’è? Un diverso, ma la diversità fa da sempre paura, meglio crocifiggerla.

Chiesa Domestica

saliceLa famiglia stanca, è come lavorare, peggio di lavorare: è il lavoro per eccellenza la famiglia. A voler spenderci tempo ed energie ti ritrovi senza aver più, uno spazio per te. E’ un tessuto vivo di relazioni, una comunicazione incessante e continua, la palestra della vita. A volte è difficile tenere tutto assieme, trovare un senso ad ogni avvenimento e sentire ricostituita l’unità in un vincolo indissolubile. Lo si fa per amore, perché è l’amore l’impalcatura del matrimonio, le fondamenta. Senti che sei amato e che qualcuno ti aiuta a sorreggere, a portare il peso. Ti lasci guidare con fiducia, con la consapevolezza che sei comunque al posto giusto nel momento giusto, che altrove non c’è posto per te, per i tuoi sogni, per le tue speranze. Sentirsi centrati comunque, appuntati con uno spillo sulla bacheca di Dio. Non come una bamboletta woodoo, ma come promemoria, un foglio su cui è segnato un appuntamento che si rinnova giorno dopo giorno nonostante le nostre infedeltà, il nostro remare contro.

Un luogo la famiglia che può diventare centro di irradiazione del mondo, ma anche inferno, tristezza disperazione. In questa lotta è la sua santificazione, il suo diventare chiesa domestica. Fare strada, fare cammino, vincere, perdere, rialzarsi e tornare a vincere. Non c’è, non esiste, un modello di vita standardizzato che la renda sacra, fulgida icona della chiesa cattolica. Esistono regole che all’interno della famiglia vanno condivise, prima tra genitori e poi tra genitori e figli. Ma soprattutto esiste il dovere dell’ascolto, della comprensione, della misericordia degli uni verso gli altri.  Esiste il dovere dell’Amore, ma se l’amato non sa più attingere alla sorgente dalla quale scaturiva il suo canto chi celebrerà le lodi dell’amata?

A chi, marito caro, ti somiglio?

Ecco: a flessibile ramo io ti somiglio.

Pensare non è comunicare

pali elettriciIl silenzio e le parole attorno, recepite, ascoltate. Senza aver scelto, compiuta necessariamente una selezione e aver riempito il proprio pensiero, identificato. Quando l’altro parla siamo sollecitati trovandoci in una situazione comunicativa a dare una nostra risposta. La nostra risposta spesso è selezione identificata del pensiero altrui, che ad esso si oppone. Questo perché pensiamo che l’altro esponga un suo pensiero, pensiero al quale ci sentiamo in dovere di controbattere. Due pensieri che “l’un contro l’altro armato” si fronteggiano. Non c’è domanda, non c’è risposta, non c’è ascolto, non c’è comunicazione. Selezioniamo e facciamo a brandelli, le idee dell’altro, le neghiamo, salvo poi in altro contesto riproporle riconoscendone implicitamente il valore, oppure le accettiamo così come sono senza riflettere, senza spirito critico.

Il problema è che nella comunicazione non è solo questione di confronto di pensieri e idee, entrano in gioco altri fattori. Fattori per così dire emozionali e affettivi, o più genericamente relazionali. E’ sbagliato ridurre tutto a un conflitto di menti e dei pensieri che essi producono. Due persone si incontrano e comunicano e si scambiano molto di più. San Paolo nella lettera ai Romani 12,15 dice: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto”.  L’Apostolo ci invita a vivere l’incontro con l’altro con apertura, con spirito di accoglienza, ma soprattutto ci invita creare empatia con il nostro prossimo, a mettere in campo una disponibilità all’ascolto che diventa un vero e proprio atto di carità spontaneo e partecipato.

Sembra scontato, ma non è così credetemi. Spesso le gioie altrui e le sofferenze diventano occasioni per noi di tentazioni. Non rinunciamo a dire la nostra, a fare confronti, paragoni, spinti da gelosie e invidie. Quando il discorso non è più solamente teorico, ma ci tocca nella carne, ecco che il pensiero per quanto competente non è sufficiente, anzi spesso risulta fastidioso e inopportuno. Ricordate gli amici di Giobbe? Ecco quello è un esempio lampante di come la comunicazione dei propri pensieri, delle proprie idee, per quanto alti e profondi, risulti del tutto insufficiente. Non è comunicare, ma soppesare il proprio pensiero e quello altrui, recando fastidio, generando malumore e disappunto. Non passa nulla, ma si creano due blocchi contrapposti che interrompono il loro flusso, il loro scambio. Come pali della luce solitari a cui hanno tagliato i fili elettrici che li tenevano uniti.

Pensato e parlato

La trinità divina è l’intimo di Dio. Il suo colloquio d’amore continuo e incessante che genera vita. Stare dentro il linguaggio significa essere partecipi di questo mistero. Stare dentro il linguaggio significa conoscere i segreti dell’universo. Pur avendo sempre sostenuto che il linguaggio interiore ovvero tutto ciò che appare all’orizzonte della nostra mente senza che necessariamente venga comunicato, il mumble mumble incessante e continuo che fece dire a Descartes “Cogito ergo sum”, debba essere considerato un fatto al pari di ciò che viene detto e comunicato, pensiero soltanto pensato e pensiero parlato sono cioè entrambi eventi reali, atti compiuti, mi trovavo nella necessità di definire lo statuto di queste due forme di comunicazione, così intimamente legate tra loro, ma al tempo stesso così diverse nelle modalità adottate appunto per comunicare. E la differenza tra pensato e parlato sta tutta nel destinatario dell’atto comunicativo, che nel primo caso non è manifesto, mentre lo è nel secondo. Da qui la conseguenza di considerare il pensato come propedeutico, preparatorio del parlato. E nulla più… Non essendo un fatto il pensare poteva godere di libertà assoluta e indiscriminata, tanto poi ciò che contava era ciò che veniva detto. L’uomo pensava ogni cosa ma poi diceva ciò che più gli tornava utile al momento. Naturalmente questo stato di cose il più delle volte veniva subito, più che agito consapevolmente. Da ciò ne derivava una congenita incoerenza che faceva dire alla saggezza popolare…tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare…L’azione che smentiva la parola altro non era che la conseguenza di ciò che avveniva a livello di pensiero. Non c’era chiarezza, ma solamente confusione, di conseguenza il dire perdeva unitarietà e le azioni stavano lì a testimoniarlo. Ho la sensazione che il segreto sia di non uscire dal linguaggio. Non uscire divisi. Ogni pronunciamento dovrebbe essere un atto di unitarietà. Ma l’unitarietà è possibile se è in atto un intimo dialogo d’amore. Un dialogo trinitario. Dio nella creazione si manifesta come unità, ma nell’intimo, nella sua essenza è Trinità. Nella comunicazione trinitaria è il mistero della vita, dell’esistenza. Ciascuno di noi dovrebbe vivere il pensare come un intimo dialogo trinitario, come comunicazione amorosa. A partire da questo sfondo, da questa base, da questo tessuto vivente dovrebbe nascere ciascun pronunciamento. Viceversa: subentra, l’interferenza, il virus, che lacera e divide…

Parole e Fatti

Chi porrà una guardia sulla mia bocca, sulle mie labbra un sigillo prudente, perché io non cada per colpa loro e la mia lingua non sia la mia rovina? Sir 22,27

Dovremmo trattare tutto il nostro continuo ragionare, meditare, ponderare, alla stregua di un fatto non di pensiero, perché solo così permetteremmo al nostro prossimo di entrare finalmente nella nostra orbita. Il pensiero allarga a dismisura il nostro io, il fatto ci rende sensibili alle domande altrui. Ma procediamo per gradi. Per prima cosa dirò che esistono alcuni indicatori che ci permettono di comprendere che il flusso continuo di pensieri -parole che produciamo nella nostra mente è realmente un evento e non qualcosa di astratto: le nostre reazioni emotive. Se le parole fossero solamente parole e non fatti non sarebbero capaci di produrre alcuna reazione. Possibile che me la prendo tanto per semplici parole? Quante volte ciascuno di noi si è sorpreso a porsi questa domanda? In realtà non me la stavo prendendo ma reagivo e quindi rispondevo ad una sollecitazione che avevo avuto in precedenza. Come ho già detto altrove, quando siamo soli a pensare, non ci troviamo cioè in una situazione comunicativa (per situazione comunicativa intendo una situazione in cui ci siano almeno due persone), il che può accadere anche per parecchie ore al giorno, inevitabilmente finiamo per ripiegarci su noi stessi e per perdere di vista i nostri referenti. Consiglierei un esercizio per acquisire consapevolezza che tutti i pensieri che facciamo in solitudine siano in realtà atti comunicativi e quindi eventi. Finita la divagazione della mente (e si parla ancora di divagazione solo in uno stato di totale inconsapevolezza dell’universo comunicativo nel quale siamo immersi) dovremmo essere capaci di domandarci: a chi sto rispondendo? A quale sollecitazione? Alle parole del mio capoufficio, a quelle di mia moglie, al libro che ho letto, al film che ho visto? Questo flusso di pensieri che poco fa ha attraversato la mia mente e di cui soltanto io sono a conoscenza, vuole essere una risposta a quale evento-comunicazione al quale nel corso della giornata ho partecipato? Come dicevo prima le reazioni emotive sono un valido indicatore che il mio pensare è un fatto reale in quanto è, un atto comunicativo. Se il flusso di pensieri-parole che mi attraversa fosse soltanto una massa informe e indistinta di pensamento, non produrrebbe alcuna emozione né in me, né in chi mi ascolta.

Considerare il pensare alla stregua di un evento, ci sollecita anche alla responsabilità della gestione di tale evento. Il più delle volte purtroppo accade esattamente il contrario e anche quando ci troviamo in una situazione comunicativa, continuiamo a divagare come se fossimo ancora soli. Per ricavarne una identità che ci porti alla formazione e alla espansione del nostro IO, finiamo per fagocitare, per inglobare tutti i messaggi che ci attraversano al fine di attingerne una definizione del nostro esistere e del nostro essere al mondo. Insomma invece di dare risposte e formulare domande e quindi di comunicare, produciamo senso, sperando che ciascun senso prodotto, sia il senso giusto. Così in realtà non facciamo altro che mettere continuamente e soltanto in scena noi stessi e i nostri pensieri. Stando così le cose finiamo per venire meno anche ad uno dei presupposti fondamentali di ogni situazione comunicativa che è l’ascolto. Ma di questo magari ne parleremo un’altra volta.

Riassumendo potremo dire: Nonostante le emozioni funzionino da rivelatori che il pensare è un evento reale e concreto continuiamo a trattare il flusso di pensieri-parole che ci attraversano alla stregua di una attività non comunicativa. Questo ci porta in definitiva a non assumerci la responsabilità dei nostri pensieri e a vivere delle situazioni comunicative improprie: non comunichiamo, non ascoltiamo ma in compenso produciamo pensiero. Pensiero confinato nella solitudine dell’IO.

San Valentino!

Convivenza non è connivenza. Il male si allontana, moltiplica la sua distanza mentre il bene ci rende più forti. Ma il male non scompare non si eclissa per sempre e definitivamente. E’ sempre lì in agguato pronto a sferrare il suo attacco. Solo che siamo più forti, ci sentiamo tali, rivestiti dall’Amore di Cristo. Convivenza con quello che sono e che sono stato. La Santità è convivenza con lato oscuro della forza. Passatemi l’uso di un’immagine presa a prestito dalla saga di Guerre Stellari. Se non accetto che posso cadere e ricadere anche lo stesso giorno, anche per più giorni consecutivi. Anche per lo stesso motivo, per la stessa debolezza o leggerezza. Se non lo supero, se non mi sforzo di farlo fino al giorno in cui la misericordia di Dio mi faciliterà il superamento, la digestione. Santità è convivenza pacificata e guardinga, è impegno, lavoro, dimenticanza di se stessi a favore del prossimo. Trionfo dell’amore, non sconfitta del male.

“Guarda ai frutti del bene che hanno attecchito nella tua vita, sono tanti, numerosi, molti di più delle cose che non vanno e ti fanno soffrire. Consenti loro di crescere, di maturare, aggrappati a loro quando sentirai sconforto dentro di te, prosegui sulla strada che essi ti indicano, accogli le sollecitazioni che ti mandano, gli impegni che ti procurano, la croce alla quale ti inchiodano e ti accorgerai che il male non fa più così male, che la tentazione è vinta e la paura e la colpa sono demoni oramai lontani.”