I giovani e la musica

Auguriamoci che l’opera intrapresa da papa Francesco continui, senza interruzione: rinnovamento e pulizia all’interno della chiesa. Opera che prosegue per altro il lavoro cominciato dal suo predecessore. Un punto sul quale sin qui si è riflettuto poco, è la continuità esistente tra i due pontificati su questo aspetto. Ma questa è soltanto una considerazione a latere.

In questi giorni di deserto spirituale si sente tutto il peso di certe scelte e certe decisioni. Conforta l’incontro con Gesù, diretto esplicito, coinvolgente. Caro Gesù, amico fidato, amore. Solitamente mi piace iniziare così il colloquio con lui, e poi lasciare che la polvere del silenzio mi avvolga. Oggi riflettevo su una cosa. Che grande responsabilità che ha la musica e più precisamente i cantanti sulle nuove generazioni. I suoni e le parole possono avere la possibilità di scardinare edifici logori di parole e tempo, vite spezzate, consumate dalle dipendenze. Questo spesso è il vissuto dei giovani e solo la musica per alcuni può essere capace di riattivare risonanze profonde e spingerli alla ricerca di una strada, di un cammino che non c’è e che solo loro possono percorrere: ognuno il suo.

Qui il vento soffia forte e sembra non cessare mai. I suoni profondi dell’anima, parole e musica strumento di dialogo e comunione con noi stessi, con quella parte di noi che ancora non conosciamo, che scopriamo poco a poco. Se solo sapessero i ragazzi che dietro ogni nota, dietro ogni parola che li scuote, li innalza, c’è nascosto Dio. Che quell’estasi, quel godimento, quel pianto, quel riso, quella nostalgia che dura il tempo di un mp3 è solo l’inizio dell’avventura che esso è espressione di qualcosa d’altro, di qualcosa di più nascosto. Ecco allora che quando i ragazzi mi chiedono “ma come faccio a scrivere” gli rispondo, scavate dentro di voi e troverete grandi ricchezze.

Pensare non è comunicare

pali elettriciIl silenzio e le parole attorno, recepite, ascoltate. Senza aver scelto, compiuta necessariamente una selezione e aver riempito il proprio pensiero, identificato. Quando l’altro parla siamo sollecitati trovandoci in una situazione comunicativa a dare una nostra risposta. La nostra risposta spesso è selezione identificata del pensiero altrui, che ad esso si oppone. Questo perché pensiamo che l’altro esponga un suo pensiero, pensiero al quale ci sentiamo in dovere di controbattere. Due pensieri che “l’un contro l’altro armato” si fronteggiano. Non c’è domanda, non c’è risposta, non c’è ascolto, non c’è comunicazione. Selezioniamo e facciamo a brandelli, le idee dell’altro, le neghiamo, salvo poi in altro contesto riproporle riconoscendone implicitamente il valore, oppure le accettiamo così come sono senza riflettere, senza spirito critico.

Il problema è che nella comunicazione non è solo questione di confronto di pensieri e idee, entrano in gioco altri fattori. Fattori per così dire emozionali e affettivi, o più genericamente relazionali. E’ sbagliato ridurre tutto a un conflitto di menti e dei pensieri che essi producono. Due persone si incontrano e comunicano e si scambiano molto di più. San Paolo nella lettera ai Romani 12,15 dice: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto”.  L’Apostolo ci invita a vivere l’incontro con l’altro con apertura, con spirito di accoglienza, ma soprattutto ci invita creare empatia con il nostro prossimo, a mettere in campo una disponibilità all’ascolto che diventa un vero e proprio atto di carità spontaneo e partecipato.

Sembra scontato, ma non è così credetemi. Spesso le gioie altrui e le sofferenze diventano occasioni per noi di tentazioni. Non rinunciamo a dire la nostra, a fare confronti, paragoni, spinti da gelosie e invidie. Quando il discorso non è più solamente teorico, ma ci tocca nella carne, ecco che il pensiero per quanto competente non è sufficiente, anzi spesso risulta fastidioso e inopportuno. Ricordate gli amici di Giobbe? Ecco quello è un esempio lampante di come la comunicazione dei propri pensieri, delle proprie idee, per quanto alti e profondi, risulti del tutto insufficiente. Non è comunicare, ma soppesare il proprio pensiero e quello altrui, recando fastidio, generando malumore e disappunto. Non passa nulla, ma si creano due blocchi contrapposti che interrompono il loro flusso, il loro scambio. Come pali della luce solitari a cui hanno tagliato i fili elettrici che li tenevano uniti.

Parole e Fatti

Chi porrà una guardia sulla mia bocca, sulle mie labbra un sigillo prudente, perché io non cada per colpa loro e la mia lingua non sia la mia rovina? Sir 22,27

Dovremmo trattare tutto il nostro continuo ragionare, meditare, ponderare, alla stregua di un fatto non di pensiero, perché solo così permetteremmo al nostro prossimo di entrare finalmente nella nostra orbita. Il pensiero allarga a dismisura il nostro io, il fatto ci rende sensibili alle domande altrui. Ma procediamo per gradi. Per prima cosa dirò che esistono alcuni indicatori che ci permettono di comprendere che il flusso continuo di pensieri -parole che produciamo nella nostra mente è realmente un evento e non qualcosa di astratto: le nostre reazioni emotive. Se le parole fossero solamente parole e non fatti non sarebbero capaci di produrre alcuna reazione. Possibile che me la prendo tanto per semplici parole? Quante volte ciascuno di noi si è sorpreso a porsi questa domanda? In realtà non me la stavo prendendo ma reagivo e quindi rispondevo ad una sollecitazione che avevo avuto in precedenza. Come ho già detto altrove, quando siamo soli a pensare, non ci troviamo cioè in una situazione comunicativa (per situazione comunicativa intendo una situazione in cui ci siano almeno due persone), il che può accadere anche per parecchie ore al giorno, inevitabilmente finiamo per ripiegarci su noi stessi e per perdere di vista i nostri referenti. Consiglierei un esercizio per acquisire consapevolezza che tutti i pensieri che facciamo in solitudine siano in realtà atti comunicativi e quindi eventi. Finita la divagazione della mente (e si parla ancora di divagazione solo in uno stato di totale inconsapevolezza dell’universo comunicativo nel quale siamo immersi) dovremmo essere capaci di domandarci: a chi sto rispondendo? A quale sollecitazione? Alle parole del mio capoufficio, a quelle di mia moglie, al libro che ho letto, al film che ho visto? Questo flusso di pensieri che poco fa ha attraversato la mia mente e di cui soltanto io sono a conoscenza, vuole essere una risposta a quale evento-comunicazione al quale nel corso della giornata ho partecipato? Come dicevo prima le reazioni emotive sono un valido indicatore che il mio pensare è un fatto reale in quanto è, un atto comunicativo. Se il flusso di pensieri-parole che mi attraversa fosse soltanto una massa informe e indistinta di pensamento, non produrrebbe alcuna emozione né in me, né in chi mi ascolta.

Considerare il pensare alla stregua di un evento, ci sollecita anche alla responsabilità della gestione di tale evento. Il più delle volte purtroppo accade esattamente il contrario e anche quando ci troviamo in una situazione comunicativa, continuiamo a divagare come se fossimo ancora soli. Per ricavarne una identità che ci porti alla formazione e alla espansione del nostro IO, finiamo per fagocitare, per inglobare tutti i messaggi che ci attraversano al fine di attingerne una definizione del nostro esistere e del nostro essere al mondo. Insomma invece di dare risposte e formulare domande e quindi di comunicare, produciamo senso, sperando che ciascun senso prodotto, sia il senso giusto. Così in realtà non facciamo altro che mettere continuamente e soltanto in scena noi stessi e i nostri pensieri. Stando così le cose finiamo per venire meno anche ad uno dei presupposti fondamentali di ogni situazione comunicativa che è l’ascolto. Ma di questo magari ne parleremo un’altra volta.

Riassumendo potremo dire: Nonostante le emozioni funzionino da rivelatori che il pensare è un evento reale e concreto continuiamo a trattare il flusso di pensieri-parole che ci attraversano alla stregua di una attività non comunicativa. Questo ci porta in definitiva a non assumerci la responsabilità dei nostri pensieri e a vivere delle situazioni comunicative improprie: non comunichiamo, non ascoltiamo ma in compenso produciamo pensiero. Pensiero confinato nella solitudine dell’IO.

Sostanza Ontologica comunicante

Se è vero quindi che le parole per preservare la loro energia spirituale è giusto che restino nascoste, fino a quando lo Spirito Santo non se ne servirà in un contesto comunicativo, con lo scopo ben preciso di dare testimonianza alla Verità, è anche vero che tutto ciò è necessario perché nella parola si annida colui che è abile ad alterare la comunicazione. Ma andiamo per gradi, e per prima cosa leggiamo questo passo di Esichio Presbitero:

“Bisogna faticare per la custodia delle cose preziose; ma per la verità sono le cose preziose che custodiscono noi da ogni malizia sensibile e spirituale. E queste cose sono la custodia dell’intelletto con l’invocazione di Gesù Cristo, e il guardare sempre alla profondità del cuore, e stare di continuo nella esichia con l’intelletto, anche per così dai pensieri che appaiono buoni; e avere cura di essere trovato vuoto di pensieri, affinché i ladri non vi si nascondano, e se anche persistendo, fatichiamo col cuore, però la consolazione vicina. Filocalia vol I, Gribaudi editore pag 249.

Tralascio volutamente in questo post qualsiasi considerazione sull’importanza e il valore, dell’Esichia e della Preghiera del Cuore nella tradizione ortodossa. Così come una eventuale analisi su quel meraviglioso testo che è la Filocalia, che qui in occidente abbiamo conosciuto, la maggior parte di noi, attraverso I racconti di un pellegrino Russo.

Soffermiamoci invece sulle parole di questo padre della Filocalia e in particolar su alcuni punti del suo discorso: 1- Le cose preziose, ossia la Verità, ci custodisce da ogni malizia sensibile e spirituale; 2- Avere cura di essere trovato vuoto di pensieri perché…; 3- I ladri, ossia i demoni, si nascondono nei pensieri.

Tutto ciò, come dissi altrove, è compendiato nel monito di Gesù ai suoi discepoli che troviamo in Luca 12,11-12. Ora domandiamoci: perché questo avvertimento? Se ci comportiamo diversamente e non affidiamo tutto noi stessi alla Verità che ci preserva e custodisce, ci lascia vuoti di pensieri, e al momento opportuno ci suggerisce le parole adatte, cosa può accadere? Se non siamo vuoti, in un vuoto silenzio, che si badi bene non è assenza ma presenza di Gesù Cristo nostro Signore ci troviamo ingombri di pensieri-parole. C’è movimento quindi, non c’è quiete nella nostra anima, nel nostro cuore e intelletto. Tutto ciò si verifica perché in maniera del tutto involontaria, non dipendente cioè dalla nostra volontà , si generano immagini, parole e musica nella nostra mente. Tutto ciò accade perché siamo dotati di una nostra energia spirituale originaria che ha come compito proprio quello di generare comunicazione. Siamo fatti di sostanza comunicativa in poche parole. La comunicazione, che è anche comunione, è la nostra sostanza ontologica. Se questa struttura non la preserviamo, o meglio non lasciamo che si preservi da sé secondo le sue regole, accade che interferiamo con essa.

Riassumendo: siamo fatti di sostanza ontologica comunicante, ossia di una sostanza che non ha bisogno di essere attivata per inviare messaggi. Li invia già di per sé, occorre solamente mettersi in ascolto. La natura di questa sostanza è quella naturalmente di venir fuori, di comunicare, tanto più quando su di essa agisce il “rifornimento” dello Spirito Santo. Passatemi il paragone: quando aumenta il carburante, ci sono più probabilità che si generi un moto, e quindi la comunicazione. Ma proprio in ciò che per sua natura la definisce e la caratterizza, si annida il rischio più enorme. Amare è un rischio, così come cercare la comunione con i fratelli e comunicare. Nel momento infatti dell’insorgenza delle parole, del loro venir fuori ed apparire all’aurora della mente, i demoni sono in agguato. Vediamo cosa fanno: 1) Introducono una sorta di virus per cui per prima cosa rendono autoreferenziale il discorso, spostano cioè ; la nostra attenzione dall’atto comunicativo in sé, al pensiero di tale atto. Dal comunicante, al comunicato. Se non c’è comunicante (cioè colui che comunica), non possiamo dire allora che si tratta di comunicazione ma solo di pensiero. Che si autogenera e si autoproduce chissà per quale meccanismo dovuto magari alla materia e quindi ai sensi. 2) Creano un collante, una aderenza tra l’insorgere di quelle prime immagini, parole e musica e i nostri sensi, impedendo all’intelletto di controllarne gli ulteriori sviluppi. Qualora i nostri sensi fossero sempre rivolti alla realtà materiale che li circonda, in continuo stato di eccitazione, difficilmente infatti potrebbero essere governati. 3) Una volta creata questa aderenza, dopo cioè aver imbracato il pensiero, lo fanno rotolare, per vie traverse, fino completamente a sottometterlo, e a sottomettere con esso la nostra volontà.

In definitiva ciò che tentano instancabilmente di fare i demoni è di impossessarsi di questo processo comunicativo originario e di distruggerlo. Potere e distruzione. Morte e guerra. Le parole da strumento diventano fine, e così chi le detiene. Governare un universo, di immagini, di parole di suoni, significa governare anche il mondo: dimenticare che esso ci è dato per dialogare con il nostro creatore, è la responsabilità più grande che pesa sulla coscienza dell’uomo moderno.

Comunicazione

La conoscenza avviene durante l’atto di comunicazione. E’ una trama che si sviluppa tra un io e un tu. Partendo da me la conoscenza, è mancante di una parte. Si compie e si realizza solamente quando giunge a un tu. E si compie ne prima ne dopo, ma durante l’atto comunicativo.
Io credo che sto dicendo qualcosa a qualcuno, che trasmetto a lui, le conoscenze acquisite, mentre invece sono io il primo ad apprendere. E tanto più apprendo tanto più l’altro dimostra di ascoltare. Se la sua risposta è discreta e silenziosa, avrà capito da me, avrà comunque fatto un passo avanti. Se viceversa la sua risposta sarà invasiva, verrà catapultato in un contesto competitivo che mi distoglierà dall’apprendimento. Un conflitto di pensieri che si soppesano a vicenda non aiuta a fare passi in avanti, a progredire. Accogliente e direzionale, non rinunciataria e neppure arrogante questo il tipo di risposta che favorisce l’apprendimento. L’altro ha bisogno del nostro silenzio per sentirsi accolto, ma al tempo stesso ha bisogno della nostra fermezza e solidità per trovare una direzione alla folla di pensieri che ingombrano la sua mente. Non ha invece bisogno che noi ci si metta in competizione con lui trasformando la comunicazione in una lotta per il primato delle idee e delle azioni. In lui è  in atto un processo di apprendimento che va assecondato, accompagnato. Non bisogna presupporre che tale processo di apprendimento debba essere rimesso totalmente in discussione in base alla giustezza o meno delle idee. Prima ancora dei contenuti, dovremmo essere capaci di muovere l’animo ad una nuova attenzione, ad una nuova partecipazione. Solo così le parole che ne costituiscono, il nerbo e l’ossatura potranno dar vita ad una nuova combinazione conoscitiva.
Quando non ascoltiamo, mettiamo in circolo materiali di riflusso, materiali che si trasformano in una forma apparente non comunicativa. La negazione dell’atto di comunicazione (e quindi se c’è da ascoltare si ascolta, se c’è da parlare si parla) genera chiusura e autodifesa. Si prendono cioè materiali di pertinenza dell’atto comunicativo e li si trasformano in pensiero, che alimenta l’io e l’identità della persona. Ma lo fa, possiamo ora dire, snaturandola. Un essere destinato alla comunicazione, alla relazione, si trasforma in un solitario emblema di una cultura dell’incomunicabilità. Tutto ciò che non diciamo quando andrebbe detto, tutto ciò che non ascoltiamo quando andrebbe ascoltato, restano come qualcosa di irrisolto nella nostra mente e costituiscono il materiale al quale in continuazione rivolgiamo la nostra attenzione.