Famiglia o Chiesa Domestica?

michelangelo-tondo-doniNon siamo solo famiglia, ma Chiesa Domestica. Se i tempi fanno sì che le parole debbano veicolare contenuti e realtà diverse, possiamo sempre trovarne delle nuove per esprimere quello che siamo. Ed ogni famiglia cristiana a ben vedere dovrebbe essere o diventare una piccola chiesa domestica capace di esprimere qualcosa di più del semplice legame di sangue, qualcosa di più del pur legittimo amore umano. Un centro di irradiazione del mondo, un exemplum, una fonte di ispirazione. Nel nuovo medioevo nel quale viviamo, tra breve non ci sarà più spazio per la centralità della Chiesa. Che sia un bene o un male a noi non interessa giudicarlo. Ma è un dato di fatto che si ripartirà da tanti piccoli centri capaci di resistere, capaci di rinnovarsi, capaci di sperare contro ogni speranza.

Dobbiamo andare oltre la famiglia, e non solo perché ormai è talmente allargata, geneticamente modificata e trasformata da non rendersi più riconoscibile ai nostri occhi. Il vero cristiano non teme questa situazione, ma anzi è consapevole che si tratta di un’occasione unica. La consapevolezza di essere chiesa domestica significa consapevolezza del proprio ruolo, della propria missione, significa consapevolezza di essere protagonisti, cooperatori. Ciascuno nel proprio Nazareth, operando nel nascondimento e lontani dalla tentazione della socialità e della mondanità, cooperando attraverso una rete di relazioni autentiche con le tante altre piccole chiese domestiche che da qui a poco accenderanno le loro lampade.

Quindi perché accanirsi per preservare un termine che appare oggi così promiscuo e compromesso e non provare a sostituirlo con un’idea nuova veicolata da un vocabolo che ha tutto il sapore dei primordi della nostra fede cristiana: Domus Ecclesia?

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Parole e Fatti

Chi porrà una guardia sulla mia bocca, sulle mie labbra un sigillo prudente, perché io non cada per colpa loro e la mia lingua non sia la mia rovina? Sir 22,27

Dovremmo trattare tutto il nostro continuo ragionare, meditare, ponderare, alla stregua di un fatto non di pensiero, perché solo così permetteremmo al nostro prossimo di entrare finalmente nella nostra orbita. Il pensiero allarga a dismisura il nostro io, il fatto ci rende sensibili alle domande altrui. Ma procediamo per gradi. Per prima cosa dirò che esistono alcuni indicatori che ci permettono di comprendere che il flusso continuo di pensieri -parole che produciamo nella nostra mente è realmente un evento e non qualcosa di astratto: le nostre reazioni emotive. Se le parole fossero solamente parole e non fatti non sarebbero capaci di produrre alcuna reazione. Possibile che me la prendo tanto per semplici parole? Quante volte ciascuno di noi si è sorpreso a porsi questa domanda? In realtà non me la stavo prendendo ma reagivo e quindi rispondevo ad una sollecitazione che avevo avuto in precedenza. Come ho già detto altrove, quando siamo soli a pensare, non ci troviamo cioè in una situazione comunicativa (per situazione comunicativa intendo una situazione in cui ci siano almeno due persone), il che può accadere anche per parecchie ore al giorno, inevitabilmente finiamo per ripiegarci su noi stessi e per perdere di vista i nostri referenti. Consiglierei un esercizio per acquisire consapevolezza che tutti i pensieri che facciamo in solitudine siano in realtà atti comunicativi e quindi eventi. Finita la divagazione della mente (e si parla ancora di divagazione solo in uno stato di totale inconsapevolezza dell’universo comunicativo nel quale siamo immersi) dovremmo essere capaci di domandarci: a chi sto rispondendo? A quale sollecitazione? Alle parole del mio capoufficio, a quelle di mia moglie, al libro che ho letto, al film che ho visto? Questo flusso di pensieri che poco fa ha attraversato la mia mente e di cui soltanto io sono a conoscenza, vuole essere una risposta a quale evento-comunicazione al quale nel corso della giornata ho partecipato? Come dicevo prima le reazioni emotive sono un valido indicatore che il mio pensare è un fatto reale in quanto è, un atto comunicativo. Se il flusso di pensieri-parole che mi attraversa fosse soltanto una massa informe e indistinta di pensamento, non produrrebbe alcuna emozione né in me, né in chi mi ascolta.

Considerare il pensare alla stregua di un evento, ci sollecita anche alla responsabilità della gestione di tale evento. Il più delle volte purtroppo accade esattamente il contrario e anche quando ci troviamo in una situazione comunicativa, continuiamo a divagare come se fossimo ancora soli. Per ricavarne una identità che ci porti alla formazione e alla espansione del nostro IO, finiamo per fagocitare, per inglobare tutti i messaggi che ci attraversano al fine di attingerne una definizione del nostro esistere e del nostro essere al mondo. Insomma invece di dare risposte e formulare domande e quindi di comunicare, produciamo senso, sperando che ciascun senso prodotto, sia il senso giusto. Così in realtà non facciamo altro che mettere continuamente e soltanto in scena noi stessi e i nostri pensieri. Stando così le cose finiamo per venire meno anche ad uno dei presupposti fondamentali di ogni situazione comunicativa che è l’ascolto. Ma di questo magari ne parleremo un’altra volta.

Riassumendo potremo dire: Nonostante le emozioni funzionino da rivelatori che il pensare è un evento reale e concreto continuiamo a trattare il flusso di pensieri-parole che ci attraversano alla stregua di una attività non comunicativa. Questo ci porta in definitiva a non assumerci la responsabilità dei nostri pensieri e a vivere delle situazioni comunicative improprie: non comunichiamo, non ascoltiamo ma in compenso produciamo pensiero. Pensiero confinato nella solitudine dell’IO.

Post-it

Ci sono alcune parole che restano attaccate all’anima come tanti post-it in esse si condensa tutto ciò che ancora di irrisolto è presente dentro di noi. E per quanto le ripetiamo continuamente, non riusciamo mai a nominarle. Ossia la realtà che esse racchiudono non ci si svela mai. Ci vuole tempo, pazienza perchè si riattivi il loro contenuto. Perchè tornino a parlarci, a mostrarci la trama in esse racchiusa. Soprattutto quando abbiamo a che fare con eventi dolorosi possiamo immaginarci e figurarci l’anima con tutte queste ferite. Piccoli racconti cicatrizzati che non riusciamo più a leggere perchè sembrano scritti per noi in una lingua sconosciuta. A volte capita che questo post it si muova, si sposti e riveli il suo contenuto, lo smuova. La Parola di Dio è curativa contro queste incrostazioni, agisce lentamente eppure efficacemente.
Queste parole nelle quali spesso ci troviamo a commerciare sono prive di direzione, non indicano più, una strada da seguire. Sono come acqua sporca che ristagna in una pozza. Non c’è un affluente e neppure un defluente. La rete di canali che costituisce il mondo della comunicazione gli è attorno, eppure la pozza pare isolata. Questa è, l’immagine del nostro io, della nostra anima, ricolma di linguaggio che non comunica più, che ha perso per strada la sua forza. Per fortuna che in questo stato di cose, sepolta tra tante altre parole, ce n’è una che ha attecchito ed ora lentamente comincia a ricondurre il flusso vitale attraverso le arterie, scava nella terra tanti piccoli canali che la ricongiungono alla vita. Questa parola era stata coperta dalle altre, pareva scomparsa, seppellita, dispersa. I pensieri erano stati il suo letto di morte e sotto di loro era marcita, come seme, nella terra. Si era putrefatta. Ed ora invece eccola lì; pianta rigogliosa, trasformata, mutata, sospinta da nuova energia. E le vecchie parole nel vortice e nel vento dello Spirito Santo volano, muovono pezzi di carne e di sangue che ritrovano la gioia dell’esistenza.
Diventano frase, direzione, trama, arco puntato verso il domani, stanno lì come tanti cartelli a noi e a quelli che ci seguono ad indicare il cammino.